Quale fede è inferiore all’amore?

Nell'epistolario paolino, 1 Corinzi 13 è interamente costituito dal celeberrimo inno all’amore, in cui l'apostolo descrive la terza delle cosiddette virtù teologali come superiore ad ogni dono ed eccellente su ogni virtù, terminando con queste parole: “Ora queste tre cose durano: fede, speranza, amore, ma di esse la più grande è l’amore” – 1 Corinzi 13:13. Questo passo è il più citato per sottovalutare la fede a vantaggio dell'amore, che diviene così la causa primaria della nostra salvezza, complementare, se non addirittura alternativo, alla fede. Se per amore qui si intendesse quello di Dio, ovviamente il verso citato non verrebbe a creare alcuna difficoltà, essendo la carità divina la fonte naturale di ogni grazia, soprattutto di quella salvifica. Il contrasto con il Vangelo della giustificazione per la sola fede verrebbe però a crearsi se l’apostolo, scrivendo quelle parole, avesse inteso non l'amore di Dio per il mondo, ma quello del credente verso il prossimo. E poiché molti, sulla base dei primi versi del carme paolino, ritengono proprio questo, forse non a torto, sebbene penso che non sia del tutto improbabile un conclusivo accenno all’amore divino come esemplare, sorge il dilemma di come possa conciliarsi la superiorità dell’amore fraterno con la dottrina della salvezza senza opere. Può l’amore per il prossimo essere inoperoso? Dovendo rispondere di no, e non potendo escludere che si tratti proprio di quell'amore, dovremo ricercare una spiegazione e quale posto migliore per trovarne una, se non il contesto in cui l'inno fu scritto? Così vediamo innanzitutto che, nel capitolo che precede, come pure in quello che segue, Paolo sta discutendo dei doni spirituali – 1 Corinzi 12:1. Questi carismi possono essere di natura prodigiosa, come la profezia, le lingue o la guarigione, oppure ordinaria, come la capacità di evangelizzare o di insegnare. Sopra tutti questi doni, sta l’amore: 1 Corinzi 12:31; 14:1. Ora Paolo ricorda ai Corinzi che un credente non riceve tutti i doni, ma solo uno o alcuni: 1 Corinzi 12:28-30. Tra questi, Paolo elenca anche la fede – 1 Corinzi 12:9. La parola greca che sottende a 1 Corinzi 12:9 e a 13:13 è sempre la stessa - p…stij [pistis] - e il contesto dei tre capitoli, vertendo sui carismi, ci obbliga a ritenere che l’apostolo stia parlando in entrambi i casi della stessa cosa: un carisma di pochi. A uno infatti è data, per mezzo dello Spirito, parola di sapienza; a un altro, secondo il medesimo Spirito, parola di conoscenza; a un altro fede, dal medesimo Spirito – 1 Corinzi 12:8s. Se si ritiene che qui, come nel contestuale inno all’amore, si debba intendere la salvifica fede evangelica, se ne dovrebbe dedurne che non ogni credente possiede questa fede. Tuttavia come potrebbe uno credere senza la fede? Poiché la fede che rende credenti e salvi non può essere appannaggio di pochi nella Chiesa, dobbiamo esser persuasi che la fede di 1 Corinzi 12:9 e 13:13 debba intendersi necessariamente in altro modo. Il fatto che nelle Scritture la p…stij [pistis] non possieda sempre lo stesso significato è chiaro, oltre che da quanto appena detto, anche da Romani 3:3, dove si parla della p…stij [pistis] di Dio. E’ ovvio che Dio non possiede fede in se stesso, essendo la fede “certezza di cose che si sperano e dimostrazione di cose che non si vedono” - Ebrei 11:1, perciò tutte le versioni rendono quel p…stij [pistis] con fedeltà, parola ragionevolmente adeguata al contesto. Anche in Galati 5:22 lo stesso termine greco viene reso in alcune versioni – Nuova Riveduta e C.E.I. - allo stesso modo. Ritengo si debba tradurlo in questa maniera anche in 1 Timoteo 6:11 e 2 Timoteo 2:22, dato che certamente il giovane presbitero possedeva già la vera fede, da non doverla più ricercare: ciò che gli era utile perseguire era la fedeltà, insieme all’amore. Questi riferimenti ci sono utili per comprendere che p…stij [pistis] non indica giocoforza la fede che salva e che pertanto, anche in 1 Corinzi 13:13, può e deve intendersi in altra maniera, altrimenti contraddicendo l’intero insegnamento paolino. Tuttavia è possibile che lì e in 1 Corinzi 12:9 non si tratti di fedeltà, dato che p…stij [pistis] può identificarsi anche con l’insegnamento cristiano - 1 Timoteo 5:8; 6:13 - oppure, come in buona parte dei racconti evangelici, con la profonda fiducia nella potenza di Dio - Matteo 8:10p. Questo sentimento infatti, non certamente la fede salvifica, la dottrina o la fedeltà, Gesù intende incoraggiare nell’esporre il suo insegnamento sulla fede che sposta le montagne: Marco 11:22-24. Questa fiducia gli apostoli chiedono di avere aumentata: Luca 17:5s. Essa, capace anche di prodigi, avvantaggia chi la possiede nel raggiungimento della fede nel Vangelo – Matteo 8:10s – tuttavia non si identifica ipso facto con quella fede, dato che si può credere nella potenza del Signore e compiere miracoli, eppure non essere salvati: Matteo 7:22s. Perciò Gesù ammonisce: “Abbiate fede in Dio e abbiate fede in me” – Giovanni 14:1 – così accostando e nondimeno distinguendo le due fedi. Ora, nell’inno dell’amore, la fede di cui si parla sembra essere proprio questa: “Se avessi tutta la fede in modo da spostare le montagne, ma non avessi l’amore, sarei un nulla” – 1 corinzi 13:2. Questa dunque la fede inferiore all’amore, questo il carisma dello Spirito Santo per pochi! La Scrittura non si contraddice: “la giustizia di Dio è rivelata da fede a fede”, non da amore a fede o da fede in carità, “perché il giusto per fede vivrà!” – Romani 1:17. Sola fide: Galati 2:16.
Lo stesso discorso deve ora farsi per la speranza: vi è una speranza che si identifica con la fede ed è a salvezza – 1 Giovanni 3:3 – e un’altra speranza, che invece è la virtù che le afflizioni cristiane producono, mediante la pazienza e l’esperienza: Romani 5:3s. E’ chiaro che questa seconda speranza non può identificarsi con la fede, dato che ovviamente segue e mai precede le persecuzioni per il Vangelo. Proprio questa virtù è la speranza di 1 Corinzi 13:13, virtù superiore a ogni dono, ma inferiore all’amore. Questa lettura di 1 Corinzi 13:13 è sostenuta anche dal fatto che, immediatamente prima, l’apostolo aveva scritto che l’amore “tutto crede e tutto spera” – v.7. Qui il riferimento, come si deduce anche dal resto del verso, non è ovviamente al Vangelo, non potendo la fede e la speranza evangeliche derivare dal nostro amore, essendo l’iniziativa esclusiva di Dio: “Noi amiamo perché Dio ci ha amati per primo” – 1 Giovanni 4:19; cfr. Romani 5:10; Efesini 2:8. Infine, il supposto parallelismo tra 1 Corinzi 13:13 e 1 Tessalonicesi 1:3 e 5:8, dove l’amore è accostato alla fede e alla speranza a salvezza, ritengo si debba considerare molto dubbio. In Paolo ricorrono numerosissime volte parole quali fede, grazia, pazienza, gioia, pace, speranza, amore, ecc. associate tra loro in vario modo. L’accostamento dell’amore con la fede e la speranza nella prima epistola ai Tessalonicesi potrebbe non avere alcuna relazione con la triade dell’inno all’amore. Tanto più che in 1 Tessalonicesi 1:3 sembra si parli non dell'amore per il prossimo, ma di quello verso Dio: nel greco, “il Signore nostro Gesù Cristo”, in genitivo e senza preposizioni, è chiaramente l’oggetto sia della fede, che dell’amore e della speranza. Di conseguenza lo stesso potrebbe darsi per 5:8. L'amore per il Signore, e solo quello, al pari della fede in Lui, è imprescindibile dalla salvezza: Se qualcuno non ama il Signore sia anatema!” – 1 Corinzi 16:22. Invero anche l'amore per il Signore può essere operoso, tuttavia Paolo lo intende coerentemente solo come moto interiore, al pari della fede: infatti in Romani 13:8-10 l'apostolo indicherà come adempimento di ogni comandamento l'amore per il prossimo, ma non l'amore verso Dio. Già Gesù aveva detto la stessa cosa: Matteo 7:12. Vero è che il discepolo prediletto scriverà: "Se uno dice: Io amo Dio, ma odia suo fratello, è bugiardo; perché chi non ama suo fratello che vede, non può amare Dio che non vede" - 1 Giovanni 4:20, ma successivamente vedremo la ragione di questo avviso. Ribadisco dunque che Paolo, l'apostolo di Dio per le nazioni, non si contraddice: la fede nel suo Vangelo è superiore a qualunque dono o virtù teologale, inferiore soltanto all'amore di Colui che ce l'ha donata. Infatti, se qualcuno non vorrà in alcun modo accettare un differente significato per la parola fede, allora con coerenza non dovrà accettarlo per la parola amore. Ora nelle Scritture abbiamo, come già per la fede – Ebrei 11:1, la definizione dell’amore: “In questo è l'amore: non che noi abbiamo amato Dio, ma che egli ha amato noi, e ha mandato suo Figlio per essere il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati” – 1 Giovanni 4:10. Se dunque in 1 Corinzi 13:13 la fede sarà la stessa che salva, l’amore sarà lo stesso descritto da Giovanni: l’amore che Dio ha per noi e che fu manifestato sulla croce. Non le nostre opere, ma l’Opera di Dio in Cristo. Questo amore certamente precede la fede e supera ogni speranza: “Noi abbiamo conosciuto l'amore che Dio ha per noi, e vi abbiamo creduto. Dio è amore! – 1 Giovanni 4:16.

Stai dunque attento a come le Scritture ti vengono citate, memore del fatto che anche Satana ne abusò per tentare il Figlio di Dio: Matteo 4:6p. Non permettere che ti venga menzionato un verso fuori dal suo contesto o al di là dello scopo per cui è stato scritto. Così, anche in 1 Giovanni 3:14s abbiamo un esempio di Scrittura spesso citata a sproposito, poiché anche qui sembrerebbe insegnato che l’amore superi la fede. Invero buona parte della lettera pare consolidare questa interpretazione, e potremmo essere ingannati, se non fosse che l’apostolo ha già posto una premessa all’inizio del suo breve scritto: “Vi scrivo queste cose affinché non pecchiate” – 1 Giovanni 2:1. Ecco dunque lo scopo: limitare il peccato! Si noti la differenza con la conclusione del suo Vangelo: Queste cose sono state scritte, affinché crediate che Gesù è il Cristo, il Figlio di Dio e affinché, credendo, abbiate la vita nel suo Nome – Giovanni 20:31. Qui dunque uno scopo fondamentale: “affinché abbiate la vita”. Come? Credendo. Lì uno scopo pastorale: “affinché non pecchiate”. Come? Amando. E perché l’apostolo prediletto sia ancora più certo che, nonostante le sue minacce, il credente non dubiti della propria salvezza, immediatamente aggiunge alla premessa una promessa: “Ma se qualcuno pecca, noi abbiamo un Avvocato davanti al Padre: Gesù Cristo il Giusto. Egli è il sacrificio propiziatorio per i nostri peccati e non soltanto per i nostri, ma anche per quelli di tutto il mondo” – 1 Giovanni 2:1s. In questo senso squisitamente pastorale si dovrà pertanto interpretare anche quel passo citato prima: Se uno dice: Io amo Dio, ma odia il proprio fratello, è bugiardo; chi non ama infatti il proprio fratello che vede, come può amare Dio che non vede?” – 1 Giovanni 4:20. Ecco perché, a prescindere dal risultato dei suoi ammonimenti, in conclusione alla sua breve epistola scriverà: “Vi ho scritto queste cose perché sappiate che avete la vita eterna, voi che credete nel Nome del Figlio di Dio” – 1 Giovanni 5:13 !

1 Tessalonicesi 5:9s [seconda parte]

Torniamo ora a 1 Tessalonicesi 5:9s. Questo passo è di una così confortante certezza, che lo stesso apostolo lo propone per una consolazione vicendevole: v. 11. Tuttavia sarebbe stato strano se Satana non avesse tentato nulla contro un passo di così dolci e sicure speranze, egli che è “l’accusatore dei nostri fratelli, colui che li accusa notte e giorno dinanzi al nostro Dio” – Apocalisse 12:10. Infatti, al contrario del Signore Gesù, la cui missione principe è quella di difendere i suoi dalle accuse, giuste che siano non importa – cfr. Romani 8:33s; 1 Giovanni 2:1, la prima prerogativa del Diavolo, il cui significato etimologico è calunniatore, si sappia, non è quella di tentare, bensì di accusare i giustificati del Signore, per indurli alla disperazione di Giuda. Così, proprio lo stesso spirito che abitò nell’Iscariota ha spinto coloro che, approfittando dell’ignoranza di molti fedeli riguardo alla lingua greca, hanno proposto una malfidata interpretazione di questo passo, togliendo ad esso ogni valore di grazia e di certezza per la salvezza dell’anima. Costoro sostengono che il vegliare ed il dormire di questa Scrittura significhino il vivere ed il morire del corpo, così che la consolazione che questo passo apporterebbe sarebbe derivata dalla speranza cristiana dell’aldilà. In altre parole, l’apostolo avrebbe qui insegnato che, vivi o morti, le nostre anime sono con il Signore. Soprattutto questa interpretazione è stata adottata dai papisti sedicenti Cattolici, da sempre in maggioranza nemici della salvifica dottrina della giustificazione per grazia. Infatti, nella nota in calce a 1 Tessalonicesi 5:10, della Nuovissima Versione dai Testi originali, Ed. Paoline 1991, così si legge: “Sia che vegliamo, sia che ci addormentiamo significano: sia che viviamo, sia che siamo morti. Si esprime qui la certezza fondamentale dell’esistenza cristiana: quella cioè di partecipare alla vita di Cristo sia nel tempo dell’esistenza terrena, sia dopo la morte”. Dello stesso parere è La Bibbia di Gerusalemme, pure papista. A sostegno di questa interpretazione viene utilizzata la stessa lettera, in 4:13ss, dove è annunciata la speranza della resurrezione per i fedeli “che si sono addormentati”, ossia i santi morti. Dunque Paolo, in 5:10, avrebbe semplicemente ripreso il concetto di sonno, quale metafora della morte, espresso già nel capitolo precedente. Anche altrove invero, nel Nuovo Testamento, la morte è presentata con la stessa metafora, cosicché ci vedremmo quasi costretti ad accettare l’interpretazione testé proposta, se non vi fossero a toglierle forza quattro argomenti, di cui gli ultimi due, i più stringenti, ma nascosti allo sguardo del comune lettore, sono da sé soli sufficienti a far crollare la diabolica impalcatura, costruita ad arte contro la retta spiegazione di questo passo.

Il primo colpo demolitore è dato dal contesto: Paolo non sta discutendo della vita e della morte, ma del peccato e della vigilanza, pertanto, nel passo in questione, esordisce con queste parole: “Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza”. Una frase del genere avrebbe poca pertinenza con quanto segue, se a seguire fosse una dichiarazione di sopravvivenza dell’anima. Al contrario, vi si ravvisa una perfetta attinenza se, a completare il discorso, sono intese la sonnolenza e la veglia spirituali, rispettivamente causa d’ira e di salvezza nella visione meritocratica della Legge.

Il secondo colpo è dato dall’evidenza che la vita dell’anima nell’aldilà non viene mai posta da Paolo come “la certezza fondamentale della fede cristiana”. Sebbene altrove l’apostolo insegni la sopravvivenza dell’anima – 2 Corinzi 5:1-10 – questa sempre cede il posto alla speranza della resurrezione. Così, quando nella stessa lettera ai Tessalonicesi scrive della sorte dei fedeli defunti, cercando parole di consolazione per coloro che sono nel lutto, non accenna affatto alla dottrina della sopravvivenza. E’ dunque improbabile che Paolo, dimentico dell’anima in 4:13ss, dove la pertinenza era assoluta, se ne ricordi in 5:10, quando l’argomento è ormai del tutto nuovo ed estraneo. D’altronde la sua mira è quella “non già di essere spogliati [del corpo], ma di essere rivestiti, affinché ciò che è mortale sia assorbito dalla vita”– 2 Corinzi 5:4.

Quanto è stato detto finora destabilizza certamente la cattiva interpretazione, tuttavia non le inferisce un colpo risolutivo. Sarà necessario volgere lo sguardo al testo originale per dare al busillis una soluzione certa e definitiva. Se si esclude la terribile Traduzione Interconfessionale, LDC-ABU, in cui il pensiero dei traduttori ha avuto il sopravvento su quello di Dio, tutte le versioni del Nuovo Testamento in italiano rendono il nostro passo in maniera assolutamente ineccepibile, pur tutte traendo il lettore in un inganno involontario. Mi riferisco ad uno dei verbi in questione: dormire. Abbiamo già detto come, nelle epistole di Paolo, questo verbo si riferisca il più delle volte alla morte del corpo. In questo senso viene pure usato altrove nelle Scritture greche. Eppure noi sosteniamo che in 1 Tessalonicesi 5:10 non possa assolutamente assumere questo significato. Perché? Nella lingua greca in cui gli autori neotestamentari scrivevano, i verbi utilizzati per indicare la conseguenza del sonno erano almeno due: koim£w [koimao] e kaqeÚdw [katheudo]. Ora solo il primo, esclusivamente koim£w [koimao], fu utilizzato da Paolo e dagli altri scrittori neotestamentari quale eufemismo per morire! Invece il secondo, lo stesso che ritroviamo coniugato in 1 Tessalonicesi 5:10, non assunse mai per costoro un tale significato, se non in relazione alla sola morte spirituale: Efesini 5:14. Vediamolo insieme. Ecco i diciotto passi del Nuovo Testamento in cui compaiono forme del verbo koim£w [koimao]: Matteo 27:52; Matteo 28:13; Luca 22:45; Giovanni 11:11; Giovanni 11:12; Atti 7:60; Atti 12:6; Atti 13:36; 1 Corinzi 7:39; 1 Corinzi 11:30; 1 Corinzi 15:6; 1 Corinzi 15:18; 1 Corinzi 15:20; 1 Corinzi 15:51; 1 Tessalonicesi 4:13; 1 Tessalonicesi 4:14; 1 Tessalonicesi 4:15; 2 Pietro 3:4. I passi sottolineati sono quelli in cui koim£w [koimao] ha il significato di morire. Si noti come Paolo, nella prima lettera ai Corinzi, usi dormire come metafora della morte fisica per ben sei volte, coniugando sempre koim£w [koimao] e mai kaqeÚdw [katheudo]. Persino al quarto capitolo della lettera ai Tessalonicesi in argomento, utilizza lo stesso eufemismo per ben tre volte consecutive, ma sempre e solo coniugando koim£w [koimao]. Come può dunque essere ammissibile che solo in 1 Tessalonicesi 5:10 coniughi kaqeÚdw [katheudo] per indicare la morte fisica? Ecco ora i venti passi e le ventidue volte in cui forme del verbo kaqeÚdw [katheudo] compaiono nel Nuovo Testamento: Matteo 8:24; Matteo 9:24; Matteo 13:25; Matteo 25:5; Matteo 26:40; Matteo 26:43; Matteo 26:45; Marco 4:27; Marco 4:38; Marco 5:39; Marco 13:36; Marco 14:37 = due volte; Marco 14:40; Marco 14:41; Luca 8:52; Luca 22:46; Efesini 5:14; 1 Tessalonicesi 5:6; 1 Tessalonicesi 5:7 = due volte; 1 Tessalonicesi 5:10. Si noti bene che nel passaggio che precede immediatamente il passo in discussione, passaggio in cui è trattato l’argomento del sonno morale, Paolo usa per ben tre volte in due passi consecutivi le coniugazioni di kaqeÚdw [katheudo]. Persino un bambino, con tali evidenze, giungerebbe alla conclusione che in 1 Tessalonicesi 5:10 Paolo utilizza il congiuntivo di kaqeÚdw [katheudo] per riferirsi non al dormire della morte fisica del capitolo precedente, in cui ha usato un verbo differente, ma al dormire spirituale di cui ha appena discusso e in cui ha usato lo stesso verbo! D'altronde, non senza motivo il Signore ha ammonito dicendo: “In verità vi dico che chiunque non avrà ricevuto il Regno di Dio come un bambino, non vi entrerà affatto!” – Marco 10:15. Infatti, il pregiudizio contro la retta interpretazione di questo passo è talmente forte che persino nel celeberrimo Vocabolario Greco-Italiano di L. Rocci, alla voce kaqeÚdw [katheudo], il Nuovo Testamento si trova citato quale fonte per il significato di morire. Vero è che in Matteo 9:24p la bimba era realmente morta, ma il suo rapido risveglio poneva il suo decesso in una condizione tale da potersi assimilare al sonno naturale: non è infatti lo stesso Signore a distinguere e contrapporre quell’indicativo di kaqeÚdw [katheudo] alla morte fisica, dicendo: “Non è morta, ma dorme [katheudei]”?

Rimane ora da considerare l’ultimo elemento: quello della veglia. Il verbo grhgoršw [gregoreo], il cui congiuntivo del nostro passo è tradotto “vegliamo”, mai sta a significare, in tutto il Nuovo Testamento, l’azione di vivere. Persino Paolo, in 1 Tessalonicesi 4:15.17, nonostante abbia appena definito i morti come “coloro che si sono addormentati”, non lo utilizza per indicare i viventi, chiamati semplicemente zîntej [zontes]. Anche il Rocci, op. cit., non contempla tale significato per alcuna opera. Come è possibile allora che, in tutta la letteratura greca, solo il passo in questione abbia per grhgoršw [gregoreo] il significato di esser vivi, nonostante questo stesso verbo venga usato immediatamente prima – 1 Tessalonicesi 5:6 - per indicare la veglia spirituale? E’ meraviglioso osservare quanta accortezza lo Spirito Santo ha posto nella scelta di tali verbi, perché fossero facilmente e immediatamente compresi dai suoi cari figli di Tessalonica e da noi, che ricerchiamo con attenta solerzia la sua Parola.

Ti è chiaro dunque, amico o amica, l’inganno del Calunniatore e dei suoi ministri? E ti è chiara, cosa ancor più importante e necessaria, la Buona Notizia che nessun vizio e nessuna colpa, per quanto gravi e resistenti, potranno mai separarti dal tenero amore di Dio, se credi in Colui che Egli ha dato per la nostra salvezza?

“Mi trovo dunque sotto questa legge: quando voglio fare il bene, il male si trova in me.

Infatti io mi compiaccio della legge di Dio, secondo l'uomo interiore,

ma vedo un'altra legge nelle mie membra, che combatte contro la legge della mia mente e mi rende prigioniero della legge del peccato che è nelle mie membra.

Me infelice! Chi mi libererà da questo corpo di morte?

Grazie siano rese a Dio per mezzo di Gesù Cristo, nostro Signore.

Così dunque, io con la mente servo la legge di Dio, ma con la carne la legge del peccato.

Non c'è dunque più nessuna condanna per coloro che sono in Cristo Gesù!”

Romani 7:21ss.8:1

1 Tessalonicesi 5:9s [prima parte]

Queste breve passo riassume con estrema chiarezza la Buona Notizia cristiana. Trovandosi nel testo più antico del Nuovo Testamento, queste due righe dell'epistolario paolino costituiscono la prova più evidente che la Parola che andiamo annunciando non fu il frutto di una lenta elaborazione del messaggio evangelico, ma l’immediata e definitiva rivelazione del Signore per la Chiesa delle nazioni, tramite Paolo, l’apostolo delle genti. Così vi si legge: “Dio infatti non ci ha destinati a ira, ma ad ottenere salvezza per mezzo del nostro Signore Gesù Cristo, il quale è morto per noi affinché, sia che vegliamo sia che dormiamo, viviamo insieme con lui”. L’importanza assoluta che questo passo riveste nella dottrina della grazia risulterà evidente solo tenendo conto del contesto in cui è inserito. Nelle righe immediatamente precedenti, si legge: “Ma voi, fratelli, non siete nelle tenebre, così che quel giorno abbia a sorprendervi come un ladro; perché voi tutti siete figli di luce e figli del giorno; noi non siamo della notte né delle tenebre. Non dormiamo dunque come gli altri, ma vegliamo e siamo sobri; poiché quelli che dormono, dormono di notte, e quelli che si ubriacano, lo fanno di notte. Ma noi, che siamo del giorno, siamo sobri, avendo rivestito la corazza della fede e dell'amore e preso per elmo la speranza della salvezza - vv.4-8. E’ chiaro che l’apostolo sta invitando i cristiani a non dormire nelle tenebre, in quel sonno del peccato che può sorprendere persino gli eletti di Dio, ma piuttosto a restar svegli, secondo il consiglio che era stato già di Gesù: “Vegliate e pregate, per non cadere in tentazione, perché lo spirito è pronto, ma la carne è debole” – Matteo 26:41. A questo punto potremmo aspettarci, come altrove – Luca 21:36 - una qualsiasi minaccia per i dormienti, invece ciò che segue è una rassicurante promessa che il destino di tutti i credenti non è ad ira, ma a salvezza, sia che vegliamo alla luce di una sana condotta, sia che dormiamo nelle tenebre della colpa. Un tale annuncio è quanto meno sconvolgente per coloro che sono abituati ad un cristianesimo meritocratico, fondato sulla legge di Dio e non piuttosto sulla sua grazia. Per quanto ciò possa scandalizzare, noi non possiamo non testimoniare che, qualunque siano stati e siano ancora i tuoi peccati, anche i più terribili, se credi in Colui che in croce li ha pagati per te, sei salvato! D’altronde rifletti: se Gesù fosse venuto a predicare una religione nel solco della tradizione ebraica dei comandamenti, perché avrebbe dovuto allertare il suo pubblico dicendo: “Beato colui che non si scandalizzerà di me!” – Matteo 11:6p ? Un riformatore dei costumi può dare fastidio, ma di certo non può scandalizzare. A cosa, dunque, si riferiva il Signore? Quando furono dette queste parole? Sia in Matteo che in Luca, esse seguono la frase “E il Vangelo è annunciato ai poveri” – Matteo 11:5p. Chi possiede dunque questa povertà, che in Matteo 5:3 si spiega essere di natura spirituale? Leggiamo la seguente parabola: “Due uomini salirono al tempio per pregare; uno era fariseo e l'altro pubblicano. Il fariseo, stando in piedi, pregava così dentro di sé: O Dio, ti ringrazio che io non sono come gli altri uomini, ladri, ingiusti, adùlteri; neppure come questo pubblicano. Io digiuno due volte la settimana; pago la decima su tutto quello che possiedo. Ma il pubblicano se ne stava a distanza e non osava neppure alzare gli occhi al cielo; ma si batteva il petto, dicendo: O Dio, abbi pietà di me, peccatore! Io vi dico che questo tornò a casa sua giustificato, piuttosto che quello; perché chiunque s'innalza sarà abbassato; ma chi si abbassa sarà innalzato - Luca 18:10-14. Chi è il povero in spirito della parabola? Di sicuro il pubblicano. Egli possiede la povertà di meriti di fronte a Dio e ne è consapevole. Cosa fa? Entra nel tempio per compiere un rito o per fare buoni propositi o per inaugurare la sua conversione? Nulla di tutto ciò! Lo ripetiamo: nulla di tutto ciò! Soltanto chiede umilmente perdono, sa di essere in debito e chiede pietà! E il Signore che fa? Annuncia la sua giustificazione! Gloria a Dio! Quell’uomo è giustificato solo per aver chiesto perdono: ecco lo scandalo del Vangelo dei poveri. A dispetto di tutto il suo impegno, il fariseo sarà condannato, poiché crede che Dio baratti il suo Regno in cambio di sacrifici e meriti umani, al contrario l'umile fede del pubblicano nella misericordia di Dio aprirà al peccatore le porte del Cielo! “Ora andate e imparate cosa significhi: Misericordia voglio e non sacrificio! Perché Io non sono venuto a chiamare i giusti, bensì i peccatori” – Matteo 9:13. La differenza tra il fariseo ed il pubblicano consistette essenzialmente nel fatto che il primo reputò Dio l'Altissimo suo debitore, mentre il secondo lo stimò saggiamente suo creditore. Alla domanda della Scrittura: "Chi ha dato a Dio qualcosa per primo così da doverne ricevere il contraccambio?" – Romani 11:35, il fariseo rispose "io" e fu perduto, ma tu cosa rispondi ora?
E’ vero, ci duole dirlo, che non poche comunità evangeliche pongono, tra le condizioni per essere salvati, quella di rinunciare alla pratica dei propri peccati. Se così fosse, chi sarebbe salvato? Chi si accosta a Cristo sa di essere peccatore per nascita e per censo, come può allora presentare a Dio un cuore talmente libero dal male da esser così spavaldamente pronto a rinunciare al peccato - cfr. Romani 7:14ss - per di più ancor prima di essere rinato?! Cosa fece il pubblicano? Il Signore non dice che egli tentò di mutare vita, né altre parole mette sulla sua bocca, se non queste: “O Dio, abbi pietà di me peccatore!”. Altre comunità, meno arroganti, pongono la condizione della rinuncia alla pratica del male per il solo battesimo in acqua. Ma cosa dice la Scrittura? Alla domanda dell’eunuco: “Ecco dell'acqua; che cosa impedisce che io sia battezzato?”
– Atti 8:36 – Filippo non fa richieste morali, ma, stando al versetto seguente, risponde: Se tu credi con tutto il cuore, è possibile”. Se poi non si accetta il v. 37, poiché manca nei più antichi manoscritti del Nuovo Testamento, la cosa è ancora più semplice: la sola richiesta dell’eunuco convince Filippo a fermare il carro e a scendere nell’acqua per battezzarlo – v. 38 ! La stessa semplicità risulta da altri passi della Scrittura: persino Simon mago, che era “pieno d’amarezza ed in fiele d’iniquità” – Atti 8:23 - fu battezzato solo per aver creduto: Atti 8:13. Vero è che Pietro, il giorno di Pentecoste, aveva detto: “Ravvedetevi e ciascuno di voi sia battezzato nel Nome di Gesù Cristo, per la remissione dei vostri peccati” – Atti 2:38. Ma di cosa dovevano ravvedersi i suoi uditori? Immediatamente prima, Pietro aveva loro predicato con queste parole: Uomini d'Israele, ascoltate queste parole! Gesù il Nazareno […] quest'uomo, quando vi fu dato nelle mani per il determinato consiglio e la prescienza di Dio, voi, per mano di iniqui, inchiodandolo sulla croce, lo uccideste” – Atti 2:22s. Era dunque di questo omicidio che dovevano ravvedersi, riconoscendo in quell’uomo non più un bestemmiatore, bensì il Figlio di Dio, non più un peccatore, ma “il giusto per gli ingiusti, per ricondurci a Dio” – 1 Pietro 3:18. Questo ravvedimento, per quei Giudei, si identificava con la confessione di fede cristiana, così che ad esso l’apostolo lega non solo il battesimo, ma la salvezza stessa, ossia la remissione dei loro peccati. Anche altrove il ravvedimento è posto come condizione per il perdono dei peccati –Luca 24:47 - e ciò perché le parole greche rese ravvedimento e ravvedersi, oppure pentimento e pentirsi, sono rispettivamente met£noia [metanoia] e metanošw [metanoeo], ed entrambe stanno ad indicare quel mutamento di opinione necessario all’accettazione del Vangelo. Esse si riferiscono esclusivamente ad un’attività del pensiero, non al comportamento; per questo il Battista deve ammonire dicendo: “Fate frutti degni del ravvedimento” – Luca 3:8. Diversamente, la conversione di vita, che deve far seguito alla salvezza e tuttavia non la influenza, nelle Scritture greche è resa da ™pistršfw [epistrefo], un verbo che esprime l’idea di un’inversione di marcia - cfr. Luca 22:32. A volte però, nel Nuovo Testamento, questo cambiamento di direzione si riferisce ad un mutamento non della condotta morale, ma della visione religiosa, a favore del cristianesimo - 1 Tessalonicesi 1:9; 2 Corinzi 3:16: ovviamente, in questo caso, anche la conversione diviene, similmente al ravvedimento, pregiudiziale alla giustificazione – Atti 3:19. Pertanto, da quanto precede, è chiaro che di nulla dovrà accertarsi il ministrante del battesimo, se non del fatto che il battezzando abbia ben compreso “il lieto messaggio di Gesù” – Atti 8:35 – per scongiurare il rischio che abbia "creduto invano": cfr. 1 Corinzi 15:1s. Dopodichè, il neobattezzato potrà continuare il suo cammino come l’eunuco, “in tutta allegrezza” – Atti 8:39 – avendo creduto in “Gesù, che ci libera dall’ira futura - 1 Tessalonicesi 1:10. Per sempre!

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